Erano i tempi di coronavirus e tutto crollava

Città Nuova

Siamo nell’anno del centenario di Chiara Lubich. Erano previste centinaia di manifestazioni in giro per il mondo che però si sono interrotte già a febbraio per via dell’emergenza da coronavirus. Una certa delusione è serpeggiata certamente tra coloro che avevano messo tante energie, sottoscritto compreso, nell’immaginare un ricordo attualizzato della fondatrice. Alcune soluzioni, di cui si era avuta notizia, sembravano realmente molto ben fatte e stimolanti per chiunque. Un amico brasiliano del Movimento mi ha allora sorpreso con le sue parole: «Forse Chiara Lubich sarà felice in cielo perché questo centenario non si ridurrà a una semplice serie di commemorazioni e celebrazioni, ma si rivivrà il momento dell’origine del focolare, quando cioè “erano i tempi di guerra e tutto crollava”», così come in effetti recita l’incipit del “racconto fondatore” scritto dalla Lubich. Una storia conosciutissima ma, come spesso ricordava la stessa maestra di Trento, raccontata per essere rivissuta, ognuno a suo modo, nella propria vita.

Ma com’è che in quest’emergenza inattesa possiamo rivivere quegli eventi fondatori? Ecco alcuni modesti pensieri, perché di fronte a tali racconti c’è solo da imparare. Innanzitutto, mi si permetta, bisogna avere ben chiaro che all’epoca c’era una spinta carismatica certamente unica, seppur non irripetibile nella sua dinamica spirituale.

Possiamo poi dire di essere nuovamente in guerra come allora? In senso lato certamente sì, perché abbiamo ingaggiato una battaglia contro un nemico; ma questa volta esso è totalmente invisibile: se nel 1943-1945 nel cielo di Trento rombavano i cacciabombardieri degli Alleati, oggi gli aerei sono stati piuttosto il primo veicolo di trasporto del nemico, il minuscolo organismo virale chiamato Covid-19. In senso proprio, quindi, non credo che si possa dire che siamo in guerra, perché non ci sono nemici che volontariamente minacciano la nostra sorte. In qualche modo, tutti gli umani ci troviamo a lottare contro lo stesso nemico naturale.

Tutto crollava e tutto crolla? Certo, ci sono molte analogie, perché crollano le nostre certezze di benessere e mobilità, crollano le borse valori, crolla la possibilità di stili di vita liberi, senza limitazioni e senza limiti. Ma nel contempo nulla crolla materialmente di fronte a noi, non dobbiamo proteggerci contro le bombe che cadono dal cielo. Sì, un matrimonio deve essere rinviato, di vacanze chi ne parla più, non facciamo più shopping come se fosse un diritto… Ma le condizioni sono indubbiamente analoghe seppur assai diverse.

Nel “racconto fondatore”, ancora, si raccontava di riunioni nei rifugi antiaerei attorno alla luce di una candela fioca per leggere il Vangelo: in questo tempo di coronavirus si stanno moltiplicando a dismisura (1000% in più secondo Whatsapp) le riunioni collettive telefoniche digitali, che siano Webex, Skype o Zoom o ancora Messanger o Telegraph. L’analogia è evidente col 1943-1945, quando le riunioni erano fatte per leggere assieme una pagina di Vangelo e per “raccontarsi le esperienze” della stessa pagina vissuta. Si torna, anche se “virtualmente”, alla pratica della “Parola di vita”, cioè della lettura di una stessa parola della Scrittura in tutto il mondo e alla sua realizzazione nella vita di ognuno, che si sia nelle Filippine, a Washington o a Beirut.

Nelle pagine dei “primi tempi” dell’Ideale dell’unità, inoltre, è onnipresente il soccorso, l’aiuto, il guardarsi attorno per cogliere la sofferenza altrui e andarle incontro. «Qualunque cosa avrete fatto al più piccoli di questi miei fratelli l’avrete fatto a me». Si ricorda Doriana Zamboni che, per portare cibo e conforto in un tugurio nel quartiere delle Androne, a Trento, fu contagiata da una grave malattia dermatologica, che le piagò il volto. Era, come diceva per la tisi santa Teresina del Bambin Gesù, l’incontro con “lo Sposo”, cioè con Gesù crocifisso che sulla croce gridava il suo abbandono.

Si ricorda spesso di questi tempi un altro passaggio: è detto, infatti, che le prime focolarine quasi non si accorgevano di quel che succedeva attorno a loro. Addirittura, si rapporta che non si resero conto che la guerra fosse finita. Ma ciò accadeva, a guardar bene, non certo per il disinteresse delle ragazze di Trento verso le indicibili sofferenze dell’umanità, ma anzi per il loro massimo interesse verso gli umani. Durante tutta la sua vita, Chiara Lubich mostrò a parole e coi fatti che la politica, l’impegno sociale, la solidarietà, la vita civile l’interessavano in sommo grado. Sì, ripeteva col Qoelet che «tutto è vanità delle vanità», ma nel contempo affermava che «la politica è l’amore degli amori», e che se lei fosse nata uomo avrebbe voluto essere «prete o politico».

E poi all’epoca, non va dimenticato, non c’erano i social, non c’erano più nemmeno i giornali. Si ascoltava in poche case Radio Londra, ma le notizie passavano soprattutto da bocca a orecchio. Non è possibile nemmeno immaginare le focolarine alla caccia di notizie più o meno rassicuranti, mentre avevano da portare il pane a una famiglia, dovevano far compagnia a una vecchietta sola, dovevano invitare per pranzo a casa loro quei poveri che poi disponevano attorno alla tavola intercalandosi con loro: una focolarina, un povero, una focolarina, un povero. Se non si interessavano delle vicende politiche, non era per tranquillizzarsi o per restare nel “calduccio” della comunità, ma perché la vita del Vangelo era intensissima. Erano sempre nell’agone e nell’agorà, verrebbe da dire, nella battaglia e nella piazza.

Il «che tutti siano uno» mutuato dal Vangelo di Giovanni non era inteso, come certi esegeti avrebbero potuto suggerire, come “tutti i cristiani” o “tutti i focolarini”, ma quel tutti era “tutti-tutti”, nessuno escluso. Casomai le giovani donne corredavano questa loro certezza con l’ingenuità di pensare che quel “tutti” si sarebbe veramente realizzato di lì a poco grazie al fuoco dello Spirito. E il cuore dell’unità ricercata dalle ragazze di Trento non era il trionfo del Risorto, ma l’abisso dell’Abbandonato. Le giovani donne sperimentavano la presenza del Risorto in mezzo a loro (che chiamavano “Gesù in mezzo”, come suggerisce il Vangelo di Matteo), ma avendo scoperto che la chiave per poter godere della sua eventuale presenza, dono di Dio, era la scelta di vita di Gesù sulla croce, crocifisso e abbandonato. Ricordo in Francia, un amico argentino che stava morendo di leucemia, quando ricevette una lettera proprio di Chiara Lubich in persona, che terminava così: «Sono lì con te per scegliere Gesù abbandonato e per averlo in mezzo a noi». Gesù abbandonato in mezzo a noi.

Perché ricordare tutto ciò? Perché è commovente ricevere a tutte le ore del giorno e con tutti i mezzi digitali possibile una serie continua di “buone pratiche”, di piccoli e grandi eroismi in questi tempi di coronavirus ispirati a quel racconto fondatore dei tempi della Seconda guerra mondiale, che siano evidenti o meno le analogie e le differenze, che ne si abbia coscienza o meno. Poco importa. Anni fa, si era instaurata una sorta di concorso tra parrocchie in cui c’erano gruppi del Movimento. Si chiamava “Gara Aemulamini”, cioè un invito all’emulazione nel bene. Sembra che tale “competizione” si sia avviata un’altra volta, e su scala mondiale.

Penso sia altresì bene ricordare tutto ciò perché, qua e là, sorge una interpretazione comprensibile ma non fedele al “racconto fondatore”, quando si pensa che “Gesù in mezzo” sia un qualcosa che si costruisce (mentre è un dono di Dio: a noi sta solo rivivere le condizioni evangeliche dell’amore reciproco) per “stare bene”, per spiritualizzare ogni cosa a scapito della loro concretezza, per lasciare fuori dalla porta la sofferenza di questo mondo, per non guardarla in faccia. Certo, nel dolore prolungato di questi tempi, nel tedio e nella paura, servono i momenti di ristoro, di conforto, in cui sentirsi al sicuro e protetti dagli affetti della famiglia e del gruppo. Ma non come un fine in sé: questo sicuramente non era il pensiero della Lubich. Mai e poi mai era sorto in lei il pensiero della stasi, del fermarsi lì tra le prime focolarine per una dinamica di gruppo che avrebbe potuto scaldare loro i cuori e rassicurarle. Era Gesù che le rassicurava, non il gruppo in sé ma l’unità del Cristo. All’epoca, anche se le accuse c’erano, il focolare non era una setta e non aveva le tendenze settarie dell’autocompiacimento e dell’autoreferenzialità. C’era solo il compiacimento in Dio e la referenzialità evangelica.

In ogni caso, rileggere il “racconto fondatore” – «erano i tempi di guerra e tutto crollava» – non può che far del bene. Anche perché non è un bel raccontino rassicurante.

 

Michele Zanzucchi