Chiara, maestra nel rifugio della Busa

L'Adige

Un rifugio dal quale usciranno solo nel maggio del 1945, a guerra finita.

Era stato scavato in cima a via Grazioli, un ingresso di fronte al Pastificio Tomasi, oggi elegante dimora, e l' altro più su, vicino allo scorrere della Fersina dove ancora si vede il curvo muro paraschegge che serviva a rompere l' urto violentissimo degli spostamenti d' aria creato dallo scoppio delle bombe.

È una galleria molto larga e profonda nella roccia, nella quale si aprono pertugi chiamati pomposamente stanze, e una era per i bambini con le culle di vimini per i neonati, panchette di legno e due lampadine a pendere dal soffitto di roccia. Francamente la memoria è molto incerta; del resto avevo quasi 5 anni, ma era proprio lei, la "signorina maestra Silvia" - prese il nome di Chiara all' atto dalla propria consacrazione laicale - la più attesa, quella che portava aria di allegria fra i bambini, magari quel bottiglione con l' aranciata effervescente fatta con le cartine, unico dolce alimento fra i cibi senza sapore in quell' anno di guerra e di paura. E qualche volta distribuiva un po' di marmellata e la pasta d' acciughe da spalmare sul pane che era poco, nero con molta crusca e poca farina.

Arrivava con altre "signore maestre", i capelli trattenuti da un grande nastro bianco, il passo svelto; passava fra quella gente che viveva stabilmente nel buio budello che s' andava allungando e allargando nella roccia che di tanto in tanto veniva pitturata con la calce per rendere meno tetro il nero della galleria, ridurre l' esercito dei parassiti e il puzzo di vomito e urina che infestava quell' ambiente di miseria e paura.

Arrivava con quel gruppo di ragazze, giovani come lei, che non avevano lasciato la città, non erano sfollate per allontanarsi dai bombardamenti e avevano scelto di vivere le miserie e i pericoli fra la gente travolta dalla guerra. Si fermavano, così mi venne raccontato, accanto alle persone più deboli aiutandole a mangiare, ad uscire da quell' orrida galleria per muovere qualche passo all' aria aperta.

Insegnavano le aste ai bambini più grandicelli, quelli di via Venezia, delle Cave, di via Grazioli; qualche volta li facevano cantare, spesso tornavano verso sera per assistere alla recita del Rosario. Lei stava in piedi e attorno le donne in ginocchio, gli occhi fissi verso quella nicchia dove, illuminata da una candela sempre accesa, c' era una statuetta della Madonna, le orecchie sempre tese al primo lacerante lamento delle sirene che annunciavano l' arrivo dei bombardieri sulla città. Era stato proprio all' indomani della devastazione del rione di San Martino che si era deciso di tenere il più possibile i bambini vicino ai rifugi e la zona della Busa, con quella grandissima caverna che poteva contenere anche ottocento persone, poteva essere un luogo abbastanza sicuro perché distante dal centro città, soprattutto dalla ferrovia e grazie alla lieve brezza portata dalla Fersina, godeva di una frescura bastevole a spezzare l' afa di un' estate torrida e piena di angosce.

E c' è il ricordo, struggente, di Mario Magnani. «Mio padre morì al fronte, in Albania. Io sono nato tre mesi dopo e a Villazzano, molti anni più tardi, Lino Dallapè e Italo Dal Rì mi parlavano sempre di mio papà perché erano stati in guerra con lui. A 7 anni, come orfano di guerra, ero nel collegio dell' Opera Serafica di Cognola dove c' era la maestra Chiara Lubich. Con me, in collegio, c' era Giuseppe Iob. I suoi genitori, Maria e Giovanni che abitavano a Flavon, erano morti il 2 settembre del 1943 nel bombardamento che devastando la Portela distrusse l' edificio della Cassa Malati: quando comparvero i bombardieri sulla verticale della città si erano rifugiati nella cantina-rifugio dell' edificio. Dove morirono soffocati».

Ricordi lontani nel tempo, non dalla memoria, legati a quel gruppo di giovanissime che con dedizione e molto coraggio riuscirono, a tratti, a rendere meno arida un' epoca di infinite angosce.